Mentre scrivo ripenso a quanto abbiamo vissuto in questi
giorni e mi chiedo che significato abbia. La stessa domanda che il giorno di
Pentecoste si fa qualche ebreo quando sente gli apostoli annunciare le grandi
opere di Dio in ogni lingua: “che significa?”
Dare significati a quanto ci capita è uno dei passi
fondamentale del crescere: quando l’esperienza diventa sapienza. Ogni fatto che
accade può essere interpretato in mille maniera mi hanno insegnato alla Scuola
di Teologia Diocesana. È chiedersi cosa è successo, è ripercorrere quando
accaduto, è dare un nome agli stati d’animo, ai sogni e alle paure che ci hanno
abitato durante le nostre discussioni (e in pausa caffè).
Dal mio punto di vista è certamente stato un evento di
Chiesa innanzitutto. È vero, non c’eravamo tutti e non eravamo nemmeno in
molti, ma eravamo radunati sotto l’azione dello Spirito (più volte invocato) e
con idee, precomprensioni, carismi e stili differenti (oltre alle differenze di
età). In queste diversità siamo riusciti a fare la cosa più difficile:
ascoltarci e tenere tutto insieme senza controbatterci a vicenda. È certamente
stato un cantiere di cantiere di dialogo e di incontri. Le domande (quando mai
superficiali e banali) su cui abbiamo provato a ragionare hanno rinnovato in
noi il desiderio di rimetterci in ricerca. Alla ricerca del Vangelo e dei
giovani. Non chiedendoci come “addomesticare i ragazzi”, ma come essi stessi
possano darci delle idee, costruire qualcosa di nuovo, essere evangelizzatori
oltre che ricettori dell’annuncio.
Qualcuno alla fine del Sinodo forse si aspettava una
conclusione che sintetizzasse il tutto, magari un Bignami da me realizzato per
portarci a casa qualcosa di tangibile, risposte illuminanti alle domande che ci
siamo posti. Ma, ahimè, non è andata così. La sensazione che ho avuto io (e
penso molti di voi) è stata quella di quando più che concludersi sta per
cominciare qualcosa. Credo che stia per iniziare una seconda stagione per i
nostri oratori: non si pensa più che c’è qualcuno che se ne occupa ma ce ne
sentiamo tutti un po’ più responsabili dei ragazzi che ci ruotano attorno.
Siamo tornati a casi un po’ frastornati forse ma certamente
con il cuore più leggero perché ci siamo ritrovati non soli. Non abbiamo
risolto niente, anzi forse ci siamo fatti anche degli esami di coscienza e di
come essere autentici e affascinanti per le nuove generazioni probabilmente non
lo abbiamo ancora capito. Quello che c’è di nuovo è che fra le risposte che
abbiamo provato a dirci la cosa grande è che ci siamo fatti insieme delle
domande profonde. Ora ci tocca di starci ancora su questi interrogativi e di
azzardare qualche idea da concretizzare.
In questi giorni mi dedicherò alla lettura di tutti i
verbali e alla sintesi di questi per produrre una Carta del Sinodo, una sorta
di linee guida che ci siamo detti in questi giorni. Questo documento dovrà
essere sotto gli occhi di tutti, in particolare di chi si metterà a servizio in
oratorio. È bello condividere un cammino che conduce alla medesima meta e
quelle metà è vivere in Cristo.
Cercheremo, dunque, di non abbassare il tiro tenendo in
mente che l’oratorio prima di essere un luogo è uno stile educativo con cui si
evangelizza, si accompagna nella crescita, si allena a desiderare ogni ragazzo
e giovane che vi troverà famiglia e casa.
Preghiamo e impegniamoci affinché possiamo diventare simili
al Signore, così da stuzzicare nei giovani con cui entreremo in contatto le
parole che disse l’apostolo Giovanni (quando comincio a capire che Gesù
conosceva un segreto) “Maestro, dove abiti?”. “Vieni e vedi!”
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